Note evanescenti: inseguendo Igor Brodskij tra le nebbie della metropoli
“Il violinista Igor Brodskij” di Romano Augusto Fiocchi | Qed Edizioni
Se esiste una musica che non si lascia imprigionare nei solchi di un disco o nell’eco di una registrazione, è quella che Romano Augusto Fiocchi ci consegna attraverso Igor Brodskij, violinista senza violino, artefice di un’armonia che vibra tra il gelo di via Dante e le nebbie invisibili di una metropoli sospesa nel respiro del suo inverno.
“Il violinista Igor Brodskij” non racconta solo una storia: cattura un suono che si dissolve tra le pietre della città e i sogni svaniti dei suoi abitanti. Brodskij arriva con una custodia vuota, si siede tra la statua del poeta e quella del condottiero, sfrega l’archetto nel nulla e lancia nell’aria una musica che non è jazz, non è classica, non è rock: è semplicemente la musica di Brodskij, materia che si incarna solo nell’istante in cui la si ascolta.
Fiocchi costruisce una partitura fatta di voci e di rincorse: c’è Max Bignami, discografico viscerale che vede nella musica di Brodskij un’occasione d’oro, Don Agostino del Carmine, prete smarrito che vorrebbe far suonare quell’anima errante per salvare la sua parrocchia ormai vuota, Tommaso Paturnia, detto il Segugio, investigatore dal naso prodigioso che insegue l’odore stesso della musica per ritrovare il violinista scomparso. E intorno, la città: via Dante tagliata dal vento, via Broletto corrosa dallo smog, un sottobosco umano che si mischia tra le nebbie e le promesse mancate.
Romano Augusto Fiocchi ritratto alla presentazione del suo precedente e primo romanzo: “Il Tessitore di Vento” | Ronzani Editore - foto courtesy Finnegans - RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA
Non esistono canzoni in questo romanzo, né spartiti. Esistono soltanto cerchi concentrici di suono che si allargano nell’umidità della grande città, invadendo chiese come Santa Maria del Carmine, bar sbrecciati, stanze stanche come la camera 21 dell’Hotel Napoli, dove il violino invisibile si tramuta nell’ultima carezza d’amore per una donna senza nome. Ogni personaggio che tocca la musica di Brodskij ne esce trasfigurato. L’avvocato Biancardi immagina un violino di vetro, Wu Ming, edicolante cinese di via Dante, cerca di farne merce da vendere, mentre i tecnici del centro di produzione discografico si arrendono a una registrazione che, pur incisa, viene poi negata, nascosta, forse distrutta per amplificarne il mito.
La scrittura di Fiocchi non si perde mai nell’enfasi. È tersa, ritmata come un andante malinconico. Usa il realismo per inseguire l’irreale, disegna inseguimenti tra i vicoli, scalate in sale di registrazione, pedinamenti in metrò dove l’odore della musica aleggia più forte del sudore umano. Eppure, l’autore sa che il vero protagonista non è Brodskij, non è il Segugio, non è nemmeno la città: è l’impossibilità di possedere la bellezza.
Nel fiume dell’oblio (alimentato da bottiglie di vermut bianco), negli inseguimenti congelati delle notti che avvolgono le sconfinate vie della metropoli, nella disperazione silenziosa di chi vorrebbe solo riascoltare quella nota perfetta, “Il violinista Igor Brodskij” si conferma un piccolo poema sulla perdita. Un’ode a tutto ciò che, proprio quando cerchi di afferrarlo, ti scivola via tra le dita.
In un mondo che cerca costantemente di registrare, archiviare, cristallizzare ogni emozione, Igor Brodskij suona ancora, da qualche parte, su un violino che non c’è, su un palco che non esiste, per un pubblico che forse, in fondo, non vuole altro che rimanere a bocca aperta sotto la pioggia leggera di via Dante.
E noi, come il Segugio, possiamo solo continuare a inseguire quell’accordo che ci sfugge, quella melodia che, una volta ascoltata, cambia per sempre la nostra nostalgia.